
WIDE è un grande laboratorio creativo, durante il quale artiste e artisti italiani e internazionali realizzano opere site-specific attorno alle quali nascono gli eventi che attraversano l’estate delle Industrie Fluviali.
PROGRAMMA
LA TUA VISITA
Via del Porto Fluviale 35
00154 – Roma – Ostiense
dal lunedì al venerdì
dalle 9.00 alle 19.00
RESIDENZE 2023
DJ-SET 2023

Madame
Pour bâtir un sanctuaire, bien des tissus sont nécessaires è la frase che campeggia sull’omonima opera realizzata alle Industrie Fluviali per WIDE 23.
L’immaginario dal quale Madame attinge per comporre i suoi pastiche è quello delle incisioni vittoriane, dalle quali ricava il vocabolario visuale delle sue opere di grandi dimensioni. Fanciulle, piante e animali sono i personaggi più ricorrenti. Privati del loro contesto, sembrano smarrirsi nello sguardo di chi li osserva, sorpresi in un’innocente sospensione e incorniciati dall’altro carattere distintivo dei collage di Madame: le parole.
Pour bâtir un sanctuaire, bien des tissus sont nécessaires è la frase che campeggia sull’omonima opera realizzata alle Industrie Fluviali per WIDE 23 e presentata al pubblico lo scorso 20 luglio. Come sua abitudine, l’artista parigina – nativa di Tours – gioca con le parole per generare connessioni tra l’immagine, il luogo e l’occhio che osserva. Per costruire un santuario molti tessuti sono necessari. Laddove bâtir, oltre che costruire, può essere inteso come confezionare un vestito, e laddove i tissus, oltreché tessuti veri e propri (il riferimento al Lavatoio Lanario dove sorgono le Industrie Fluviali è evidente), rappresentano anche quel tessuto sociale sul quale si fondano i processi di costruzione di qualcosa di duraturo.
Le parole fungono così da cerniera fra la composizione e l’esperienza di chi la osserva. Il lettering aiuta a delimitare lo spazio percettivo di un lavoro che accosta elementi diversi rinunciando a precisi punti di riferimento.
L’opera – come tutte le opere di Madame – è a prima vista confortante, conciliante. La morbidezza della mano, la perfezione del volto, i fiori, le piante acquatiche (un dichiarato riferimento al carattere fluviale delle nostre Industrie, e al vicino Tevere) non hanno nulla di minaccioso né di violento.
Ma in poco tempo questo conforto viene gradualmente meno, e si generano progressivamente molti interrogativi: dove iniziano e dove finiscono le figure coinvolte? E cosa le lega? Quella fede al dito della donna sembra raccontare una backstory inquieta: è un dettaglio importante? Qual è la storia di lei? Il suo sguardo sembra ora sereno, ora irrequieto, ora alieno al contesto. E i fiori, sono un omaggio o una costrizione?
La donna sembra attraversare lo spazio compositivo, quasi come se fosse di passaggio per pochi secondi. Così le figure coinvolte raccontano una trama in divenire, come il fiume che scorre, come i santuari da costruire. Altre figure, ammantate di valori simbolici, potrebbero incombere da un momento all’altro, ciascuna a testimoniare una storia piccola o grande. Un fluire in cui può trovare voce ciò che non ha voce – istanze femministe, conoscenza del mondo naturale, eccetera – come nel quotidiano fluire di questi spazi dedicati al dialogo e all’ascolto.

Andrea Casciu
Sono creature ibride per uno spazio ibrido, sono creature fluviali. Sono pesci ma sono anche astri e, come tali, in costante movimento come la realtà che rappresentano.
Nelle culture di tutto il mondo, l’esistenza del nostro pianeta si deve spesso ad animali sacri. Alcuni ricorrono più di frequente (il serpente con la coda in bocca che circonda la Terra è comune ai dogon del Mali, agli shipibo dell’Amazzonia, ai vichinghi, ai fon del Benin e alle antiche interpretazioni indù). Per i teleuti dei monti Altaj, il mondo è piatto e sorretto da quattro tori blu mentre, secondo il popolo Minangkabaus dell’isola di Sumatra, la Terra poggia su un bufalo in equilibrio su un uovo a sua volta retto dal dorso di un pesce gigante.
In modo simile, anche nei miti tartari è un pesce a sorreggere il pianeta.
Sono enormi pesci anche le figure che Andrea Casciu ha immaginato e dipinto alle Industrie Fluviali. Ibridi dal volto umano che si inseriscono nel medesimo flusso immaginativo, ma da una prospettiva inversa. Non servono a cercare risposte, non sono un ausilio per capire il mondo come poteva essere per i Minangkabaus. Essi aggiungono significati nuovi, fornendo una lente iconografica per esplorare in profondità l’identità degli spazi in cui si inseriscono. Sono creature ibride per uno spazio ibrido, sono creature fluviali. Sono pesci ma sono anche astri e, come tali, in costante movimento come la realtà che rappresentano.
Nella poetica di Casciu, gli ibridi sono presenze assidue, ma è la prima volta che essi sono investiti di una simile forza primigenia, coinvolti in qualcosa senza tempo. Posizionate all’ingresso delle Industrie Fluviali, esse sembrano dare vita, come demiurghi all’alba dei tempi, a questo piccolo pianeta che gravita attorno al centro di Roma. Nella Cosmogonia di Andrea Casciu, sono loro a far nascere le Industrie Fluviali.
A queste creature ibride, che avrebbero trovato posto in più di un bestiarium medievale, se ne aggiunge una terza, che nei bestiari ha trovato posto davvero: è il Barometz, l’agnello vegetale della Tartaria, leggendario essere originario dell’Asia centrale il cui fusto, si narrava, era il cordone ombelicale di un agnello che ne costituiva la chioma. Al Barometz, Casciu aggiunge però un elemento alieno: un drago della tradizione cinese e giapponese, un mizuchi, uno spirito dell’acqua, che qui appare come la radice dell’agnello vegetale, andando a sintetizzare tutti gli elementi generativi delle Industrie Fluviali.

Eloise Gillow
Eloise Gillow ha scelto i rami per riflettere sul ruolo che fiducia e cooperazione rivestono in un ecosistema. Rami che appaiono come criptati.
La volta di qualsiasi foresta impedisce di visualizzare a quale albero appartengano i singoli rami, anche quando sono spogli del loro fogliame. Come ordito e trama di un fitto tessuto, si conformano in qualcosa di nuovo, di coeso, dando vita a un ecosistema aereo popolato da moltissime specie.
Eloise Gillow ha scelto i rami per riflettere sul ruolo che fiducia e cooperazione rivestono in un ecosistema. In particolare, i rami di quei pini marittimi che identificano Roma al pari delle vestigia imperiali e delle facciate barocche. Rami che appaiono come criptati. Celati da un velo di Māyā che li riduce a poco più di un pattern, diventano nitidi solo grazie a una lente particolare: le persone. L’opera ne mostra otto ma potrebbero essere migliaia, uomini e donne da ogni angolo del globo. La loro silhouette si apre come un portale sul cielo romano popolato di pini, strappando via il velo di Māyā in un modo non distante da quello descritto da Schopenhauer: attraverso arte, pietà e ascesi.
Ciò che accade in Branches è che, al di sopra di queste tre vie, ne emerge una più evidente. Si tratta della comunità, la stessa che per Fritz Perls e Paul Goodman è l’unica forma di associazione tra individui che ne può supportare la crescita. I membri di questa comunità si affidano gli uni agli altri, le braccia si legano come i rami nella volta della foresta, affidandosi alle spalle della persona più prossima in una catena potenzialmente infinita.
Con la realizzazione di Branches, la Terrazza Jorge Andre Tica Ramos raggiunge la sua maturità. Gillow ha voluto studiare questo insolito laboratorio a cielo aperto per costruire un dialogo organico con gli elementi che la compongono: il risultato è uno spazio in cui le Teste di Rapa di Alleg, la Serra Empirica di Zaelia Bishop e i Rami di Eloise Gillow sono un unicum, nel quale le individualità e la collettività concorrono alla creazione di un senso. Un insieme, ripetiamo, coeso. Come un ecosistema.

Officinadïdue
Un filo lungo 350 metri, vale a dire la distanza che separa le Industrie Fluviali dal Tevere. Uno spesso filo realizzato con scarti di lavorazione della lana, che tratteggia un percorso fluviale dalla geometria rigorosa.
L’opera di Officinadïdue, il duo composto da Vera Bonaventura e Roberto Mainardi, è certamente la più ambiziosa e imponente realizzata alle Industrie Fluviali nei primi 4 anni di vita dello spazio.
Come altre opere create nell’hub di Ostiense, scaturisce dai suoi elementi fondativi: l’industria della lana alle origini della ex-fabbrica dove sorge, il fiume che scorre a pochi metri e che ne ha ispirato la rinascita.
Sono elementi che attecchiscono facilmente nell’immaginazione delle artiste e degli artisti chiamati a intervenire in questi spazi. Bonaventura e Mainardi, però, hanno cercato una soluzione che permettesse di porre queste due entità apparentemente distanti – una industriale l’altra naturale, una animale l’altra minerale, una geologica l’altra antropica – in una condizione di sintesi organica, senza ricercare accostamenti e convivenze. Per farlo, li hanno cuciti assieme, letteralmente, impiegando un filo lungo 350 metri, vale a dire la distanza che separa le Industrie Fluviali dal Tevere. Uno spesso filo realizzato con scarti di lavorazione della lana, che tratteggia un percorso fluviale dalla geometria rigorosa. Un filo che attraversa stanze, muri, pavimenti, arrampicandosi su scale e pilastri, vorticando in un andirivieni mai caotico, nel pieno stile d’ispirazione minimale che caratterizza tutta la poetica visiva di Officinadïdue.
Questo percorso di 350 metri inizia a terra, all’ingresso dello spazio. Una placca d’acciaio è il segnale d’inizio: da lì, sotto il livello del pavimento, protetto da un vetro allungato, il cavo lanoso inizia il suo viaggio e presto si tuffa per raggiungere il piano sottostante e l’antica caldaia di ghisa della vecchia fabbrica. Prosegue ordinato, passando da un piano all’altro dell’edificio, toccando ogni angolo, finché sparisce in un grande masso calcareo levigato nei secoli dall’azione del fiume.
Il risultato è un’opera che non si trova all’interno dello spazio ma coincide con esso, lo rappresenta, lo ritrae. Un ritratto non semplice, considerato quanto mutevole è il soggetto: uno spazio ibrido talvolta sfuggente che richiede di immergersi nelle sue stanze, di conoscere la comunità che lo popola, prima di afferrarne appieno l’essenza.Ma se le premesse da cui muove l’opera sono evidenti, i risvolti appaiono più sfaccettati, e rievocano il ruolo che i fili – intrecciati, liberi, invisibili, tesi – rivestono lungo la storia dell’arte dell’ultimo secolo. Da Maria Lai a Pae White, da Alexander Calder a Tomas Saraceno fino a Chiharu Shiota, il filo ci ricorda in un tempo la nostra fragilità e la forza che traiamo legandoci agli altri, ci rammenta quanto siamo esposti ai capricci del presente e ci collega agli eventi passati. Ed ecco che questo filo che corre per 350 metri riesce a rappresentare tutto questo. È un tramite con il passato dei luoghi che percorre, fragile ma affidabile, legando assieme non solo i luoghi e il tempo, ma anche le persone: le curatrici, i curatori e gli allestitori delle Industrie Fluviali che hanno condiviso ogni fase di quest’opera con Officinadïdue in simbiotica collaborazione, dando vita a un’officina di tre, di dieci, di tante e tanti, inscindibilmente intrecciati. Come un filo.

WIDE Visions è un contest incentrato sulle digital humanities, destinato alle artiste e agli artisti under 35 che si servono dei codici per elaborare le proprie opere video.
Software art, motion design, generative AI e arti digitali in genere, dove l’algoritmo lavora al servizio delle idee dell’artista.
Da queste diverse esperienze creative, nasce il programma di eventi di WIDE:
vernissage, dj-set, visite guidate, laboratori didattici, workshop, contest.
A WIDE range of good times!
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