Quando, durante il lockdown della primavera 2020, Giulia Galera ha pubblicato su Impresa Sociale un’ampia indagine circa la risposta del sistema sanitario italiano alla crisi pandemica, abbiamo riscontrato come alcune delle istanze che portiamo avanti alle Industrie Fluviali – sviluppo partecipato, patti di comunità, prossimità – siano temi prioritari quando si parla di salute.
Per Mezzo Pieno, la stessa Giulia Galera e Giacomo Pisani descrivono un possibile e auspicato sviluppo del nostro sistema sanitario verso un modello di medicina di comunità.

Lo sviluppo di una medicina di comunità, che raccordi il tema dell’ambiente con quello della sanità, può costituire un’occasione per ripensare i termini della partecipazione alla progettazione delle politiche sociali, in un’ottica di democrazia di prossimità.
La pandemia da Covid-19 ha fatto emergere in maniera violenta e inequivocabile i limiti dei nostri schemi di protezione sociale, in particolare su due fronti. Il primo è quello della copertura: i nostri attuali modelli di assicurazione pubblica sono per lo più impostati a protezione del lavoratore impiegato stabilmente, ovvero della soggettività a cui guardava il paradigma della piena occupazione, che ha guidato la crescita dei paesi europei nel secondo dopoguerra.
Una molteplicità di figure produttive, durante la pandemia, erano privi di qualsiasi forma di protezione, così come, in tempi di normalità, essi erano totalmente esposti ai rischi del mercato. Anche i dispositivi di sostegno al reddito si rivelano del tutto insufficienti o estemporanei rispetto a pezzi importanti della popolazione. Basti pensare ai rider e ai lavoratori della logistica, costretti a lavorare anche in pieno lockdown in situazioni caratterizzate da forte rischio di contagio, oppure alle difficoltà incontrate da partite IVA, lavoratori dello spettacolo, precari, migranti etc.
I limiti della sanità ospedale-centrica
L’intasamento degli ospedali e il collasso del sistema sanitario deriva innanzitutto dall’assenza di una rete territoriale in grado di promuovere una medicina preventiva e di adeguarsi ai mutamenti demografici
Il secondo limite, forse il più evidente, si è palesato sul fronte dell’assistenza sanitaria. La pandemia ha portato alla luce le insufficienze del modello ospedale-centrico, fondato sul paradigma biomedico e su un approccio di tipo prestazionale. L’evoluzione di questo modello è andata di pari passo con la progressiva mercatizzazione della cura, nonché con l’incorporamento delle logiche aziendali all’interno dei modelli di gestione del sistema sanitario, sia a livello nazionale che territoriale. Lo scollamento di sociale e sanitario e la mancata considerazione dei determinanti sociali della salute hanno favorito un progressivo assottigliamento delle pratiche di prevenzione, scaricando interamente la responsabilità della cura sulla medicina ospedaliera.
L’intasamento degli ospedali e il collasso del sistema sanitario, soprattutto nei mesi coincidenti con i picchi delle ondate pandemiche, deriva innanzitutto dall’assenza di una rete territoriale in grado di promuovere una medicina preventiva e di adeguarsi ai profondi mutamenti demografici, quali l’allungamento della vita media, la prevalenza della malattia cronica rispetto a quella acuta e la presenza di una fetta importante di popolazione con comorbidità. Di qui, la necessità di superare l’idea che la salute si faccia solo nei centri di cura e negli ospedali e focalizzarsi maggiormente su una medicina protettiva di comunità, che rifletta le caratteristiche sociali, demografiche ed economiche dei diversi territori. Emerge inoltre l’importanza di una medicina fondata sulla collaborazione tra cittadinanza, sanità e ambiente.
Il modello prestazionale, che durante la pandemia è stato spinto al proprio limite estremo, si rivela insufficiente, in particolare, rispetto alle condizioni di fragilità e vulnerabilità. Queste situazioni, in particolar modo, abbisognano di un contesto abilitante, in grado di offrire strumenti di sostegno che non siano confinati all’arco temporale della malattia o dell’emergenza. È in questo senso che è necessario abbracciare una concezione olistica e complessa del benessere, in linea con gli indirizzi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: esso non può essere ricondotto semplicemente all’assenza o alla rimozione della malattia, soprattutto in quei contesti – di cui il caso italiano è esempio eminente – in cui l’invecchiamento della popolazione e le criticità sociali e ambientali condizionano l’intera esistenza degli individui.
Collaborare per una medicina di comunità
Si apre, su questo fronte, uno spazio di sperimentazione fondamentale, che già ha visto l’impegno e la mobilitazione di una molteplicità di soggetti anche assai eterogenei. Organizzazioni del terzo settore, imprese sociali, cittadinanza attiva, formazioni sociali di varia natura, sono state protagoniste, durante i mesi della pandemia, di importanti esperienze di attivazione dal basso, tese a dare risposta ai bisogni di quei pezzi di comunità che rimanevano esclusi dai parametri su cui sono tarati gli schemi di protezione sociale, nonché dai presidi di cura esistenti su alcuni territori.
L’efficacia dell’azione dal basso interroga la capacità delle istituzioni pubbliche di favorire un più ampio coordinamento di attori differenti entro un modello di welfare plurale, che ecceda le coordinate dei modelli di solidarietà novecenteschi. Esso può poggiare innanzitutto su una collaborazione più efficace e sistematica fra istituzioni pubbliche e privato sociale, in una direzione che, del resto, già è stata imboccata, a livello normativo, dal nuovo Codice del Terzo settore. Un modello di collaborazione non confinato ai momenti di emergenza può inoltre mettere capo ad una riarticolazione del rapporto fra assistenza sociale e sanitaria, a partire dal sostegno e dalla valorizzazione della capacità delle comunità territoriali di sperimentare forme diverse di legame sociale.
La collaborazione finalizzata al sostegno e all’inclusione sociale, nonché all’autodeterminazione delle comunità territoriali, può costituire un antidoto alle logiche competitive, che si rivelano insufficienti, in particolare, sul fronte della sanità. Questa, infatti, deve essere assunta come elemento alla base di un più generale ripensamento delle condizioni di vita in comune, in una logica diametralmente opposta rispetto alla visione individualistica in cui viene oggi confinata.
Lo sviluppo di una medicina di comunità, che raccordi il tema dell’ambiente con quello della sanità e veda protagonisti attori sociali, medici, infermieri, organizzazioni di Terzo settore, imprese sociali e singoli cittadini può costituire un’occasione per ripensare i termini della partecipazione alla progettazione delle politiche sociali, in un’ottica di democrazia di prossimità che ridefinisce anche il lessico della politica nel suo complesso. È in questa maniera, infatti, che si sfugge al particolarismo e agli egoismi e si pongono le basi per una nuova logica di collaborazione e condivisione, attenta al benessere collettivo e ai diritti per tutti.
Parliamo di medicina di comunità è il terzo capitolo di Mezzo Pieno del 2021. Leggi i contributi del primo capitolo dedicato agli spazi rigenerati e quelli del secondo capitolo dedicato agli spettacoli dal vivo
Ricercatrice senior presso Euricse, ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento. I suoi interessi di ricerca ricomprendono il fenomeno dell’impresa sociale in prospettiva internazionale e il ruolo di questa forma di impresa nella costruzione di sistemi di welfare di prossimità.
Ha collaborato con varie istituzioni internazionali, attualmente fa parte del consiglio di amministrazione della Rete Internazionale di Ricerca EMES e degli Advisory Board delle azioni OCSE ““Guidelines and Good Practices to develop Legal Frameworks for Social Enterprises” e “Promoting Social and Solidarity Economy Ecosystems”.