Per il dopo pandemia occorre un cambio di paradigma

Per il dopo pandemia occorre un cambio di paradigma

Se il caos domina le prospettive sul futuro, può aiutarci riconsiderare i presupposti

Nei più diversi settori, le aziende riconvertono la produzione sulle necessità dettate dall’emergenza. L’amaro Ramazzotti produce igienizzante per le mani. Il distretto della moda di Carpi (e non solo) ha organizzato una filiera locale per confezionare camici e mascherine.

Le industrie culturali e creative, come abbiamo visto, stanno individuando diverse modalità di sostegno al territorio. Anzitutto, per rispondere ad esigenze direttamente legate all’emergenza (spesa solidale, servizi domiciliari, supporto psicologico). Ma anche per tenere vive le braci del tessuto comunitario attraverso il dialogo, il racconto e l’analisi.

Contemporaneamente, si stanno adattando a creare e produrre nella cornice dell’isolamento, che genera situazioni molto simili fra loro in ogni angolo del pianeta. Gesti artistici e azioni culturali non prescindono mai dall’ambiente in cui si sviluppano, e se l’ambiente diviene lo stesso per tutti (le mura domestiche, i salotti, i balconi, i marciapiede davanti ai supermercati), il rischio è che ogni creazione si sviluppi nello stesso brodo di coltura. Generando cloni e déjà vu a non finire.

In ogni caso, al pari dell’Amaro Ramazzotti che smetterà di produrre igienizzante al termine della pandemia, anche per il settore della cultura si tratta di soluzioni emergenziali. In un contesto nel quale è oggettivamente molto difficile – se non impossibile – prevedere in quanti modi la società globale ne uscirà trasformata, forse possiamo approfittarne per ripensare ciò che diamo per scontato. E capire se sia necessario un cambio di paradigma per affrontare il dopo Pandemia, individuando quali opportunità ne derivano.

Una diversa idea di comunità

Su cheFare, Bertram Niessen si concentra su alcune dinamiche della collettività ampiamente assodate, rilevando come le deformazioni che ne conseguono si proiettIno direttamente sul lockdown in corso.

Nell’articolo, Niessen individua nei facili ottimismi la superficie di un processo – profondamente radicato – di rimozione della sofferenza dal nostro sentire comune. Un processo incarnato da un’estetica del dolore globalmente codificata e sostanzialmente vuota.

Abbiamo usato le parole ed i simboli per costruire una distanza con il nostro vissuto e con quello degli altri, lasciando un vuoto. E preparando il terreno per altre parole, altri simboli e altre estetiche sempre più viscerali ed aggressive.

Ma se la serie di simboli e strutture che abbiamo individuato per mantenere viva la nostra percezione di comunità sono stati una caratteristica prorompente dell’ultimo decennio, è probabile che questo sistema non sia in grado di sostenere gli anni che abbiamo di fronte. La comunità che abbiamo instaurato sui social network – con corollario di sensi di colpa e presunta nostalgia per la comunità che stavamo tralasciando nello spazio fisico delle nostre esistenze – favorisce la solidarietà ma anche il controllo dell’altro. Moltiplica le occasioni di avvicinamento ma anche di discriminazione. Per dirla con le parole di Niessen: la comunità può essere tutto e il contrario di tutto.

È fondamentale, allora, tenere presente l’eterogeneità di questa comunità. E non dare per scontato che al suo interno le possibilità si equivalgano.
Come ricorda sempre Niessen relativamente all’impegno di tutti a restare a casa:

Le catastrofi sono un moltiplicatore delle disuguaglianze e non è vero che le affrontiamo nelle stesse condizioni.

Ed è questo il cambio di paradigma al quale invita l’autore. Ripensare al nostro ruolo nella collettività, rimparare i linguaggi che usiamo per rapportarci a essa:

Abbiamo bisogno di imparare nuove grammatiche della vita collettiva, riconoscendoci non solo come individui, familiari, cittadini o membri di comunità. Ma anche come parti di reti a maglie strette e a maglie larghe, famiglie allargate, scene a intensità variabile, pubblici produttivi e non, comunità di pratiche […]

Dati sensibili: uno scenario sempre più controverso

Inoltre, se non sapremo rivedere alcuni modelli consolidati, dovremo fare i conti con le ripercussioni che deriveranno dalla gestione stessa della pandemia.

Un chiaro esempio, è l’uso dei dati sensibili per ottimizzare il contenimento del virus. Le app che paesi come Corea del Sud e Singapore hanno predisposto per tracciare i possibili contagi si sono rivelate molto efficaci, ma ci trascinano nell’eterna diatriba fra controllo e libertà. Su MIT Technology Review, Genevieve Bell dell’Australian National University si pone un lungo elenco di interrogativi legati all’uso dei dati sensibili in situazioni emergenziali come questa. E ricorda alcuni famosi casi di tracciamento dei contatti che in passato hanno aiutato ad individuare ed isolare focolai virali.

Tra questi, il caso di Mary Mallon, la cuoca irlandese portatrice sana di tifo che, all’inizio del XX secolo, contagiò inconsapevolmente più di 50 persone. Si guadagnò il soprannome di Mary la Tifoide e venne largamente demonizzata. Oppure il vasto uso dei tracciamenti per individuare la diffusione delle malattie veneree avvenuta fra i soldati americani in Inghilterra, con inevitabili implicazioni sessiste e nazionaliste. O ancora negli anni ’80, quando vennero usati i tracciamenti per identificare le comunità più esposte all’AIDS, alimentando i pregiudizi sui gay.

Scrive la Bell:

Dovremmo rivalutare cosa intendiamo per contatto (che negli ultimi due esempi citati significa contatto sessuale che la società disapprova) e per tracciamento (che associamo all’investigazione penale) e chiederci: sappiamo spogliare queste parole dalle sovrastrutture morali e punitive?
Dobbiamo rompere alcune visioni sociali e culturali del passato per usare questi metodi più efficacemente in futuro.

Visione a lungo termine

In quest’ottica, resta centrale la constatazione che manca a livello globale (con le dovute eccezioni e differenze) la capacità di progettare e costruire il futuro dandosi obiettivi lontani.
Avviene in economia, avviene in politica, avviene nel sistema dell’istruzione che abbiamo immaginato negli ultimi 20 anni.
Ne parla, in questa intervista alla ABC, Marina Gorbis, direttrice dell’Institute For The Future.

https://www.youtube.com/watch?v=5tbWLK9v0vQ#action=share

L’IFTF sta ipotizzando gli scenari futuri studiando gli esempi del passato, come la Grande Depressione seguita al crollo della borsa del ’29. Uno studio finalizzato a individuare dei pattern che possano ripetersi. Capire questi pattern aiuta a pensare al futuro, consapevoli che bisogna allo stesso modo comprendere l’ambiente e le condizioni in cui viviamo oggi, poiché essi non si ripetono mai completamente.

La domanda centrale che l’IFTF pone è: che genere di futuro vogliamo creare e cosa possiamo fare per promuovere la visione di un futuro desiderabile?
Il problema è che abbiamo creato sistemi dove le ricompense arrivano solo a breve termine.

Se pensi a certe decisioni aziendali, le ricompense sono legate all’andamento del prezzo delle azioni. Se tagli i costi, se licenzi personale, il prezzo delle tue azioni sale. Allo stesso modo, tutti i politici sono concentrati sulle elezioni successive. Le istituzioni scolastiche si basano su punteggi e test, spesso più che sulla qualità dell’apprendimento. Abbiamo creato un sistema dove le ricompense sono a breve termine, e penso che la questione ora sia, come possiamo spostare questi incentivi e ricompense sul pensiero a lungo termine?

Un nuovo modello urbano

Ancora su cheFare, anche l’architetto e urbanista Maurizio Carta ha mosso considerazioni sulla necessità di ripensare alcuni modelli, in modo simile a quanto abbiamo visto fare anche ad Andrea Melis su Cityvision.

Anche per Carta occorre un cambio di paradigma per costruire il futuro dopo la pandemia, e la crisi può rappresentare l’occasione per non ripetere gli errori del passato.

Da urbanista, la sua analisi si concentra sul ruolo delle città contemporanee, anzitutto come concausa della diffusione del virus:

Gli habitat urbani hanno invaso gli ecosistemi naturali, risvegliando ed espandendo malattie prima confinate.

E, conseguentemente, come terreno di sfida per progettare il domani, l’occasione per adottare un approccio responsabile e ripensare il nostro vivere sul pianeta.
Le risorse per affrontare questo cambiamento potrebbero giungere proprio dalle pratiche che stiamo sperimentando in queste settimane di emergenza. L’esercizio di autoisolamento che stiamo praticando a milioni, può illuminare nuovi percorsi ed offrire l’allenamento necessario a percorrerli.

Una sfida che riguarda in primo luogo la nostra idea degli spazi comuni e della condivisione delle risorse.

dopo questi giorni di quarantena, che ci hanno fatto capire che lo spazio domestico è importante ma non quanto lo spazio urbano, […] torneremo a vivere lo spazio pubblico della città, torneremo a frequentare i luoghi del lavoro come spazi della relazione sociale e non solo della produzione […]

Non più case, uffici, piazze, strade, parchi, ma luoghi che siano insieme case, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, interpretando più ruoli con un nuovo e più complesso copione urbano.

Una sfida per la quale gli spazi rigenerati, gli hub culturali, i luoghi destinati all’innovazione sociale devono cogliere con responsabilità, ma anche con entusiasmo. Questo è esattamente il terreno che abbiamo da tempo individuato per avviare un profondo rinnovamento civico ed innovare il tessuto culturale delle società che abitiamo.

La pandemia in corso presenta sfida difficili e per molti versi spaventose, ma sono sfide che potrebbero rivelarsi determinanti nel perfezionare le idee che perseguiamo.

 

Autore

Copywriter e cultural manager alle Industrie Fluviali.