Abbiamo chiesto a Marilena Lafornara della Fondazione Paolo Grassi se sia possibile, oggi, immaginare la ripartenza degli spettacoli dal vivo dopo la pandemia. E se questo significhi necessariamente restaurare oppure immaginare nuove opportunità. E ripartire dall’utopia.
Nello sforzo d’immaginare nonostante tutto – anche, banalmente, l’espressione facciale di un volto amico celato dalla mascherina – abbiamo bisogno di credere che la frattura provocata dalla pandemia possa rivelarsi un’opportunità.
Nell’invito alla scrittura di questo articolo mi sono state poste domande che in questi giorni hanno il gusto della sfida e che alimentano il coevo dibattito sul futuro che ci attende al termine del lockdown e che, in qualche modo, stiamo già vivendo. Consci dell’impossibilità di prevedere con risolutezza gli scenari che abiteremo e di cui, a vario livello, dovremo farci artefici, trovo sia utile usare questo presente tanto indefinito quanto pregno di potenziale per provare a immaginarli.
Alla domanda “come immagini il futuro della cultura post-pandemia?” si spalanca un vero e proprio dialogo sui massimi sistemi del mondo, e la citazione a Galileo non è casuale perché, se nell’intricato bandolo della matassa un punto di partenza per la riflessione va trovato, il genio pisano e il suo sapere integrato possono fungere da faro. Proviamo dunque a tracciare un percorso vocato al dubbio e all’apertura, muovendo idee in tensione critica tra loro in direzione della comprensione del presente, che costituisce la cauzione necessaria per la prefigurazione del futuro. Ciò implica, nondimeno, un’analisi retrospettiva lucida e pervasiva, scorticante oserei dire, su tutto quello che fino a due mesi fa avevamo l’assurda convinzione di poter controllare, prevedere, misurare a tutti i costi.
Fragilità strutturali del sistema culturale
Nell’innegabile drammaticità del momento, nello sforzo richiestoci ogni giorno d’immaginare nonostante tutto, anche solo banalmente l’espressione facciale di un volto amico celato dalla mascherina, abbiamo bisogno di credere che la frattura provocata dalla pandemia a livello individuale e collettivo possa rivelarsi un’opportunità. Abbiamo un bisogno disperato di credere che la cura di questa frattura non si risolverà in frettolose soluzioni-cerotto d’emergenza, ma porterà a un risanamento organico del mondo e del modo in cui viviamo. Perché se è vero che il Covid-19 ha fatto emergere una serie di falle e di fragilità nel sistema, è pur vero che gran parte di questi problemi esisteva già da molto tempo prima che il virus facesse il suo drammatico ingresso in società.
In particolare per quel che riguarda il sistema culturale, la sua vulnerabilità è stata tuttalpiù acuita e resa palese dalla pandemia, con conseguenti effetti più o meno devastanti. E quindi: dobbiamo lavorare per ripristinare la situazione pre-pandemia? È ovvio che siamo di fronte a un punto di non-ritorno per molti versi, ma questo non è necessariamente un male. Se da un lato occorrerà lavorare per il ripristino, visto che la tabula rasa totale non è un’opzione né saggia né praticabile, è da favorire una rivoluzione piuttosto che una restaurazione, che possa apportare delle migliorìe in termini di equilibrio, riposizionamento, empatia e consapevolezza, e non solo nel sistema culturale, ma nel sistema-tutto. Poiché il futuro della cultura non può né deve prescindere da una re-visione generale del mondo e di tutti i suoi ambiti.
È una nuova Weltanschauung che oggi urge immaginare: una visione completamente rinnovata e responsiva, risultante dalla seduta psicanalitica collettiva (auspicabilmente terapeutica!) a cui noi tutti siamo chiamati e di cui la cultura, come dopo ogni grande crisi, dovrà farsi autrice e garante.
Ripartire dall’utopia
«Quasi tutte le utopie criticano implicitamente le civiltà in cui nascono» afferma Lewis Mumford nel suo libro, quanto mai attuale a distanza di un secolo, Storia dell’Utopia. Mumford dispiega un’analisi storiografica delle utopie dal suo punto di vista di sociologo-urbanista e delinea dei possibili modelli utopici di riferimento per la riconfigurazione postbellica delle città e degli spazi sociali. Posto che l’utopia veicola una visione-altra della realtà, Mumford si espone a favore dell’utopia della ricostruzione, che definisce in opposizione all’utopia della fuga:
«L’utopia della fuga si muove alla ricerca di un sollievo immediato dalle difficoltà e dalle frustrazioni della nostra sorte. L’utopia della ricostruzione tenta di assicurare la possibilità di un sollievo futuro. La prima lascia il mondo esterno così com’è; la seconda tenta di cambiarlo per mettersi in relazione con esso alle condizioni desiderate».
Lewis Mumford, “Storia dell’Utopia”
Ripartire dall’utopia. Provare a cambiare il mondo (e la visione che del mondo abbiamo) per metterci in relazione con esso alle condizioni desiderate: questa, credo, potrebbe essere la traccia da seguire. In un percorso ideale punteggiato da idee illuminate e illuminanti, alle parole di Mumford fa eco Vandana Shiva.
Nel libro Il pianeta di tutti. Come il capitalismo ha colonizzato la Terra, prefigurando ipotesi di futuro sostenibile, l’attivista indiana propone il superamento del paradigma antropocentrico a favore di un ripensamento indentitario interspecie, in grado di generare benessere di tipo orizzontale sulla base di principi essenziali quali la libertà e il rispetto reciproco. Perché, in fondo, non siamo che «cittadini della Terra e membri della famiglia Terra».
Propone insomma di lavorare per la costruzione di un’interconnessione globale equa e responsabile. In che modo? Molto semplicemente: attraverso il mutuo sentire e riducendo la fame di consumo che è causa di squilibri sociali (ormai storicamente incancreniti) e delle innumerevoli catastrofi ambientali causate per mano dell’uomo dal progresso economico. Proposta di portata rivoluzionaria pur nella sua linearità, quella di Vandana Shiva, che oggi rischia di essere percepita più come ideale che come possibilità concreta. Ed è proprio qui, nello scarto tra possibile e impossibile, che la cultura deve inserirsi, rivendicando con forza il proprio ruolo edificante e concorrendo a trasformare quest’idea in un’utopia della ricostruzione a cui guardare.
Ripensare, fare, fruire
La necessità di recuperare una dimensione utopica risponde al bisogno di ripensare la società nella sua interezza, agendo nelle sue complessità, affiancando alla progettualità politico-economica, quella coraggiosa e visionaria del sogno plasmato alla cultura. Come afferma Édouard Glissant, autore della Poetica del diverso, libro da leggere in questi giorni come un mantra: «non credo che la lotta e il sogno siano in contraddizione». E credo che questo possa essere il tempo giusto (dal greco kairos, tempo opportuno) per individuare nuove modalità e nuovi paradigmi sia per fare, sia per fruire cultura.
Sì: “fare” e “fruire” cultura, anziché “produrre” e “consumare”, poiché uno dei cardini del dibattito si consuma proprio nella scelta consapevole di questi vocaboli e nel loro peso specifico. È innegabile l’affermazione di una tendenza (legittimata, tra le altre cose, dai parametri di finanziamento pubblico-privato) a concepire la cultura in termini produttivi, come bene di consumo misurabile secondo standard di tipo economico, piuttosto che come processo legato ai bisogni primari dell’individuo e della società. Questa tendenza già da troppo tempo condiziona la cultura, ma forse questo è il tempo opportuno per consentire alla cultura di ritrovare la propria funzione catartica e politica, che è e sarà indispensabile per la ridefinizione identitaria post-pandemia.
Lo spettacolo dal vivo
Un grande rischio è quello di creare performances puramente narcisiste, nello scontro tra il bisogno di espressione connaturato all’arte e la dolorosa assenza del rapporto umano che costituisce la cifra essenziale dello spettacolo dal vivo.
Penso che la scelta di usare il web per la diffusione di contenuti culturali non sia l’unica possibile in questo momento né per forza quella più valida. Probabilmente è quella di più immediata attuazione, quella che possiamo più facilmente gestire e controllare nelle condizioni attuali, e può andar bene in alcuni casi specifici, ma in prospettiva lungimirante, nel rischio di porsi come prassi univoca, credo sia una soluzione che si configura come un’utopia di fuga, piuttosto debole e dalla vana consolazione. Il web è di fatto l’agorá di cui abbiamo bisogno per la narrazione e la comprensione del presente, ed è un bene prezioso dalle innumerevoli e ben note potenzialità. Detto ciò, occorre riflettere sulla bulimica offerta culturale on-off-line degli ultimi due mesi e fermarsi un momento a chiedersi quanto sensato sia l’adattamento coercitivo di tutte le forme d’arte al web.
Tra l’altro, in un’offerta così ampia, cresce la difficoltà di scelta e scrematura di contenuti di qualità; l’incontrollato proliferare di fake news ne è la prova. In questo modo la cultura rischia di trasformarsi in una bolla di rumore e di perdere così la sua carica etica e militante, necessaria ora più che mai. Soprattutto per chi nel web naviga a vista, il rischio è quello di perdersi, e questo potrebbe aggravare il già grave problema dell’audience development, con una conseguente inibizione o contrazione di fruizione di cultura da parte del pubblico (che, comunque, sarà messa a dura prova dalla crisi economica).
Occorre in tal senso prudenza. A maggior ragione se si pensa che la scelta di digitalizzare in toto la cultura può, con ottime probabilità, accrescere il problema dell’accesso alla cultura per quanti (e sono tanti!) si scontrano con la mancanza di mezzi e strumenti cognitivi adeguati. Sembra scontato, ma non dobbiamo dimenticare – Paolo Grassi insegna – che «il teatro è un diritto e un dovere per tutti». Un altro grande rischio, soprattutto per lo spettacolo dal vivo, è quello di creare performances puramente narcisiste, nello scontro tra il bisogno di espressione connaturato all’arte e la dolorosa assenza del rapporto umano che costituisce la cifra essenziale dello spettacolo dal vivo e che, per nostra fortuna e purtroppo, non è in alcun modo sostituibile o riproducibile, se non parzialmente e con una buona dose di mortificazione.
Una rete strutturale a sostegno di idee alternative
L’ipotesi di spettacoli o concerti per pochi spettatori non può ritenersi valida sul lungo termine, soprattutto se questa scelta deriva dall’adattarsi giocoforza alle direttive politiche.
Con queste consapevolezze, da operatori culturali possiamo usare questo tempo (benedetto in un certo senso!) per la ricerca, lo studio e la sperimentazione di nuove modalità di creazione culturale, facendo in modo di non alimentare oltremisura la diffusione di opere-surrogato all’esperienzialità propria dello spettacolo dal vivo, che finirebbero con l’essere insensate, se non addirittura dannose. Anche l’ipotesi di spettacoli o concerti per pochi spettatori opportunamente distanziati tra loro, realizzati da gruppi di artisti e tecnici drasticamente ridotti all’osso, credo non possa ritenersi valida, non sul lungo termine e, soprattutto, non se questa scelta deriva dall’adattarsi giocoforza alle direttive politiche garanti delle misure di sicurezza igienico-sanitarie.
Occorre creatività e coraggio per porre le basi alla cultura e al futuro di cui abbiamo bisogno, così come occorre, è ovvio, una rete strutturale a sostegno di idee alternative. Se l’accesso alla cultura è un diritto per tutti sancito, tra l’altro, dall’Articolo 9 della nostra Costituzione, è quanto mai urgente cercare misure realmente adeguate alla difesa di questo diritto.
Eterotopia degli spazi
Allo stesso modo è di fondamentale importanza la questione della riconfigurazione degli spazi: se necessari adeguamenti andranno fatti nel rispetto delle misure di sicurezza, occorrerà porre attenzione anche a luoghi-altri per la cultura, non tanto da costruire ad hoc, quanto piuttosto da riqualificare sull’esempio dei tanti spazi abbandonati/confiscati riconvertiti in hub di condivisione e coworking, aperti alle più svariate forme di utilità sociale. Questi spazi sono il risultato della virtuosa compenetrazione tra impegno pubblico e privato, e dimostrano concretamente come, nel mettere a sistema risorse e competenze, possano essere sostenibili modelli di economia circolare.
Questi luoghi – così come il Piccolo Teatro di Milano, nato nell’immediato dopoguerra dal coraggio visionario di Paolo Grassi e Giorgio Strehler – sono molto più che un esempio di buone pratiche: sono «utopie effettivamente realizzate, contro-luoghi o eterotopie» nella definizione di Michel Focault, e rappresentano un modello possibile a cui ispirarsi, che va incoraggiato dal momento che ben s’inscrive nel sistema plastico, integrato e inclusivo, aperto al sogno e all’imprevedibile, di cui abbiamo tutti bisogno per il nostro tempo e per quello che verrà.
Laureatasi presso l’Università Sapienza di Roma, negli anni universitari studia fotografia e lavora come attrezzista in teatro e ricercatrice presso l’Archivio Gerardo Guerrieri.
Per dieci anni è stata responsabile di produzione per la Fondazione Paolo Grassi di Martina Franca e il Festival della Valle d’Itria, festival internazionale di opera lirica e musica classica. Si è occupata di ricerca e sviluppo per le Industrie Fluviali.
Sogna spesso, soprattutto di giorno, ma la pandemia le sta curando l’insonnia, quindi ora sogna spesso anche di notte.