Non è lo sfarzo, non è la spesa e non sono le portate da mal di pancia, è solamente un giorno dell’anno in cui possiamo mantenere la stessa identica malinconia di tutti gli altri giorni, ma con una spolverata di cannella e chiodi di garofano.
(♫ Come colonna sonora per la lettura del Raccontino di Natale, Eva Pinter ha selezionato questa playlist. Premi play! ♬).
Raccontino di Natale
La prima volta in cui ho sentito qualcuno dirmi che da grande sarei potuta diventare una scrittrice, si trattava del commento a un tema di prima media, dal titolo Un Natale Speciale con la Vostra Famiglia. Scelsi di parlare del Natale di alcuni anni prima, rimasto impresso nei ricordi a causa della feroce lite domestica di tutti con tutti avvenuta durante la notte del 24, terminata con me che vado a dormire nella casetta di legno che avevamo in giardino, abbracciata a un coniglio di pezza. Il racconto proseguiva con il risveglio: i miei si rassegnarono al giorno di festa, addobbando all’ultimo minuto un albero spelato raccattato dai cespugli, con qualche decorazione di fortuna, tra cui della carta alluminio appallottolata e la cinta di un accappatoio a mo’ di festone. Concludevo con qualche frase su quanto fosse prezioso tenersi compagnia, volersi bene, fare qualcosa con quello che si ha e non per forza con le cose costose.
Come si può immaginare, nel mucchio di ragazzini che stilavano lunghe liste di sognati regali ricevuti, ringraziavano i parenti e gli alberi barocchi, la mia pietosissima descrizione dei fatti si fece notare e fece breccia nel cuore della prof di italiano, che da quel giorno ho sentito osservarmi come se fossi stata una piccola fiammiferaia di borgata. Mi ricordo anche di non essere stata tanto felice del suo commento, quanto del fatto che avevo superato l’impasse del e mo’ che cazzo je dico a questa, stiracchiando e gonfiando di emozioni come un bignè il non lieto evento, trasformandolo in una medaglietta al merito. Fu la prima volta che pensai che il dolore può servire a qualcosa. Infatti scrittrice non lo sono diventata, però psicologa sì: grazie, professore’.
I favorevoli e i contrari
Sembra proprio che le feste di Natale dividano – più di tante altre occasioni – l’umanità in due grandi tribù: i favorevoli e i contrari. I favorevoli già a marzo cominciano a chiedere “Che cosa gli facciamo ai Rossi quest’anno”. Verso settembre preparano il menù. A fine novembre, esagerando, già montano le luci, selezionano i maglioni con le renne e dicono in giro, con enorme fastidio per le orecchie dei contrari, “Uh che bello tra 47 giorni è Nataleee”, et cetera. I contrari sono tutti quelli che, da quando hanno sentito parlare del Grinch, si sentono meno sociopatici e più umani ma non meno incazzati. Quelli che il 23 pomeriggio corrono a prendere uno smazzo di guanti e di candele, soffiando fastidio dalle narici come draghi. Quelli che, con altrettanta indisponenza devo dire, rompono i coglioni comunque già da settembre, però tirando la fune della discordia nel senso opposto. Sono quelli, anzi siamo quelli, a cui è capitata una cornucopia relazionale più frastagliata, i cui rapporti intimi, vuoi per caso vuoi per carattere, sono spesso costellati da uno spiccato tratto di discordia.
I favorevoli mandano cartoline ogni anno, impacchettano con cura, usano centrotavola, segnaposti, porta tovaglioli, tutto abbinato. Alcuni cambiano persino complementi d’arredo, come cuscini in tartan e porta biscotti con gli angioletti. I favorevoli passano pomeriggi interi in effluvi di cannella e chiodi di garofano e, quando arriva l’occasione, ci tengono a essere vestiti bene. I contrari lancerebbero il telefono a ogni augurio ricevuto e si farebbero tagliare una mano piuttosto che inviarne. Per quanto riguarda il cibo al più possono pensare “Oddio, che palle, di nuovo i finocchi al forno di Zia Pervinca”, oppure “Vabbè oh, almeno magnamo e non parlamo”. Non vanno pazzi per la casa vestita a festa, al limite prendono un alberetto già pronto di 15 cm giusto per il senso di colpa. Impacchettano a caramella qualsiasi cosa, nei giorni designati mettono una tuta comoda per farci stare la panza anche da seduti, prendono i pandori in offerta ma solo per il gusto del pandoro e comunque dopo capodanno o meglio ancora con i saldi al 2×5.
Potremmo forse dire che esiste anche un terzo gruppo, quello degli indifferenti, ma io non ci credo. Credo più che gli indifferenti siano dei contrari più allenati, che negli anni hanno finito le riserve di fastidio e intolleranza e che, rassegnati, cerchino di scavallare i giorni rossi del calendario nel silenzio più assoluto, fedeli alla credenza per cui l’arma migliore è appunto quella dell’indifferenza. Eppure me li vedo con le scariche di parolacce interiori quando qualche favorevole entusiasta si azzarda a mandare un augurio a loro e famiglia.
Le forzature alla felicità
La verità è che ogni momento che ci obbliga a celebrare qualsiasi cosa, ha in sé il seme della difficoltà. Compleanni, lauree, matrimoni, ferragosti, capodanni. Sono tutti quei momenti in cui non possiamo solo avere a che fare con noi stessi e i nostri nodi personali, ma dobbiamo confrontarli anche con ciò che succede nei cuori e nelle teste degli altri. Alcuni di noi sono stati – e resteranno per sempre – quei bambini che non mettevano mai il grembiule a scuola e alle feste in maschera ci andavano senza maschera. Solo che da adulti è più facile non seguire le mode, essere diversi o addirittura strani, mentre da bambini è veramente un casino. Lo dico pensando al Natale di quel tema, a quello che passai mangiando pop-corn davanti alla tv mentre di là si litigava puntualmente, a quello in cui io e mio padre andammo soli al ristorante cinese, a tutti quelli in cui era consuetudine tra compagni di scuola telefonarsi il 25 sera e farsi le liste dei regali ricevuti, ossia tutti quelli in cui mi toccava essere creativa su cosa avevo mangiato, cosa mi avevano regalato, cosa avevamo visto in tv tutti abbracciati sul divano.

Il problema del Natale non è il Natale, è l’armonia dispendiosa che richiede, è il non sapere con chi stare, la solitudine che fa eco, l’avvicinarsi del nuovo anno carico di buoni propositi che andranno persi, la mancanza di amore, la mancanza di soldi, la mancanza di persone che non ci sono più o non ci sono mai state. Il problema del Natale è quello di tutte le forzature alla felicità, che producono l’effetto contrario a meno che tu, di felicità, ne abbia da buttare, da congelare per avanzo vicino al tupperware dell’arrosto.
A Natale non siamo tutti più buoni, siamo (quasi) tutti più incazzati. Eppure non credo sia giusto che tra i contrari monti il mito per cui dissacrare è d’obbligo, celebrare è da cretini. Sarebbe come negare tutta quella quantità di riflessioni che si fanno sullo stare insieme, o sul nascondersi finché non è finita, come Scrooge. Come Scrooge sarebbe bello avere qualche spirito che ci viene a trovare e ci racconta quanto sia carino provare a essere gentili, e del perché fatichiamo a farlo. E con questo non sto tradendo la tribù in cui milito da sempre, sto solo dicendo che se ci rode così tanto, non è per l’insopportabile felicità che ci sbattono in faccia ovunque per tutto il mese di dicembre, ma per quella che ci sembra di non avere.
Se è questo che il Natale ci chiede, e allora diamoglielo
Non penso di aver mai creduto a Babbo Natale o comunque non mi ricordo il momento in cui qualcuno mi ha parlato, con delicatezza e tiepidamente, di come fosse un’invenzione. Ricordo piuttosto i miei genitori infilare delle cose nel portabagagli della macchina e dire “Ao me raccomando questi nse toccano fino alla prossima settimana”. Ricordo me stessa impacchettare oggetti rubati da casa mia e regalarli ai miei che fingevano grande sorpresa, ricordo quando con una vicina di casa ci mascherammo lei da renna io da stella cometa e giravamo per casa e quasi mi rompo un braccio per appendermi alla tenda e fare la stella cometa nel cielo, ricordo (e lo ricordo perché è il mio piccolo rituale festivo) praticamente tutte le battute dei Goonies a memoria, ricordo un 24 pomeriggio a Viale Marconi a farmi i regali da sola e buttare tutto in trousse di trucchi che mai avrei usato. Più di tutto questo mi ricordo la tristezza e lo sconforto e il senso di inferiorità e la paura e la rabbia, per aver passato così tanto tempo a cercare di essere uguale agli altri per poi scoprire, da grande, che sono effettivamente uguale a molti altri, solo che non tutti sono uguali tra di loro.
In qualche casa si litiga sempre, in qualche casa fa troppo freddo in tanti sensi, in qualche casa sembra che, oltre alla formalità di guanti e sciarpa coordinati, non ci sia molto altro, mentre in qualche altra casa c’è sempre stata molta armonia, maggiore consuetudine alla celebrazione in generale, tutto sommato anche solo maggiore leggerezza nel pensare che se è questo che il Natale ci chiede, e allora diamoglielo. Diamogli gli auguri, i calendari del dentista e le agende della banca, le tartine al salmone e al finto caviale, la messa cantata e le ghirlande sulle porte.
Né per Natale, né per altre occasioni, credo che qualcuno abbia bisogno di una psicologa di quartiere che cerca di fare del buon senso e invita alla moderazione. Però, visto che dopo Natale mi tocca il compleanno e la bambina piagnona che abita in me diventa sempre più lontana, ci tengo molto a invitarci a sopravvivere senza rancore extra a queste due settimane di inevitabile tensione, a ragionare anche fossero solo cinque minuti su come possa essere piacevole cogliere quest’occasione per fare qualche regalino non per forza ma per amore e, più di ogni altra cosa, a quanto siano carine le lucette. Suppongo per scontare i tanti anni in cui ho odiato tutto, che da quando ho vent’anni tengo sempre le lucette, tutto l’anno, sopra il letto. Sono lì a ricordarmi che anche nelle notti veramente buie, posso fare qualcosa per vederci meglio e per scaldare i pensieri e perché mi piacciono, mi piacciono tanto. Forse per lo stesso motivo, o forse in memoria dell’albero del tema, conservo ancora un piccolo festone di stelle che faceva da fiocco a un regalo di mia mamma di tanti anni fa, in una scatola di latta che un tempo aveva dentro dei biscotti. Per questa stessa mancanza di serenità conservo gli oggetti che mi facevano dimenticare la mancanza come feticci di alcuni desideri che avrei voluto trovare sotto l’albero. Non mi sento risolta, non penso sia cambiata la mia visione, né sono stata folgorata sulla via di Damasco. Rimango sempre la stessa persona facile alla polemica e all’incazzatura, solo che oggi so che buona parte di quella persona è una persona che si difende, non che attacca.
Non è lo sfarzo, non è la spesa e non sono le portate da mal di pancia, è solamente un giorno dell’anno in cui possiamo mantenere la stessa identica malinconia di tutti gli altri giorni, ma con una spolverata di cannella e chiodi di garofano.

Domenica sono andata a fare un giro in un mercatino di cose usate, ho preso un paio di maglioni senza renne e, quando stavo per andare via, ho visto in un cestone una ghirlanda intrecciata fatta a mano da chissà chi, morbida come un peluche anche se un po’ rovinata, e con il fiocco sopra che cade di lato come un basco. Prima l’ho presa in mano pensando che fosse carina, immaginandomi le mani molto anziane di chi l’aveva cucita. Poi ho pensato “vabbè ma che cazzo ci faccio, dai” e sono andata via.
Dopo dieci minuti sono tornata, la sera ho tolto un quadro dalla parete, ce l’ho appesa e ho passato il resto della serata a pensare che, anche quando quasi niente va bene, quasi sempre qualcosa la possiamo fare. Che sia una cinta di accappatoio, un fiocco logoro, un messaggio gentile o una lucetta al buio, c’è qualcosa in questi giorni che forse è magico sul serio, la capacità che ha la vita di regalarti tante cose: un cuore per sentire tutto il male, una testa per vederci dentro anche un po’ di bene e spero altri cento Natali per rifletterci sopra addobbando i pensieri altre cento volte.
Psicologa e psicoterapeuta. Ha esteso la sua attività professionale alla consulenza epistolare, che diviene supporto e condivisione grazie alle risposte che trovano spazio sul suo blog Confessioni di una Psicologa Senza Filtro.