La fine di un’estate, e in particolare di un’estate al mare, richiama puntuale alla nostra mente adolescenziali malinconie. Anzi, marinconie.
(♫ In fondo all’articolo trovi la playlist perfetta da ascoltare durante la lettura di Marinconie ♬).
Il mare vicino, a volte sporco, sempre rustico, mi sta insegnando che non tutto quello che ci perdiamo, è perso per sempre.
L’estate al mare è il regno del possibile, quel periodo dell’anno, o forse più quello stato dell’anima, in cui da domani possiamo essere astronauti o ballerini di danza classica, come se il tempo non passasse, come se il tempo non contasse. L’estate al mare è quel momento in cui possiamo camminarci addosso gli uni con gli altri, tutti in mutande, come se non fosse strano ma fosse strano non farlo. Un po’ come quando si è ubriachi, soprattutto come quando si è innamorati, quando pensiamo che domani possiamo fare ogni cosa e di poterci trascinare dentro tutti quelli che abbiamo intorno. Sarà forse perché durante l’estate si è spesso ubriachi e a volte anche innamorati, sarà anche solo l’idea di doversi preoccupare meno di tutto, tranne del “che se magnamo stasera”, saranno tutte quelle cose che non riesco a elencare in ordine, fatto sta che a guardare il mare per molte ore, è come se l’orizzonte delle idee si espandesse in modo esponenziale al ritmo dell’ingrossarsi delle onde.
Ve lo dice una che non ha mai fatto un’estate al mare prima dell’anno scorso, una che ha viaggiato tanto quando era molto piccola, troppo per capire dove si trovava e troppo di frequente per avere degli amici da ritrovare nello stesso posto, anno dopo anno. Una che da piccola diceva ai compagni di classe che avrebbe passato il tempo al Lido dei Pini, semplicemente perché i nomi dei posti che visitavo suonavano così strani che era meglio non provarci proprio. La stessa per cui il mare, fino all’adolescenza in cui qualche giorno di spiaggia me lo sono fatto, non era blu, azzurro, trasparente, o anche solo tiepido appena entri, era spesso e grigio e gelido come solo l’oceano sa essere. La parte acquorea del mondo, prendendo in prestito l’incipit di Moby Dick, era l’ultimo posto dove volevo andare e il primo a portarmi terrore e tristezza. Se vi state chiedendo perché proprio una che non sa molto né di estati al mare, né di estati romane, voglia provare a raccontarvi come può essere l’estate al mare vicino Roma, fate bene, me lo chiedo anche io. Forse posso provare a farlo proprio perché l’ho desiderata così tanto questa normalità, che posso avere quell’entusiasmo ingenuo degli americani quando vedono tutti quei sassi del Colosseo, che poi è lo stesso degli italiani quando vedono tutte quelle luci di Times Square.
Il grande paradosso, spesso colonna portante delle vite, vuole che il mio primissimo ricordo sia proprio di me in canottiera bianca da adulto e scarpette da scoglio con i buchi, rosse, che raccolgo il sale grosso dagli scogli di Marettimo. Eppure, dicevo, non ho mai passato un’estate al mare prima dell’anno scorso. Anno in cui mia madre, al grido di “Vojo morì ar mare”, decide di investire i suoi risparmi nell’acquisto di una casa non al, ma proprio sul mare. Dopo aver passato alcuni mesi a fantasticare sulle isole greche ma pure sulle Egadi, appunto per i ricordi, dopo aver scartato anche le non lontane e rispettabili Gaeta e Sperlonga, ci siamo ritrovate una mattina sul pullmino della Cotral, quello che parte da metro Laurentina, quando parte, direzione Lido di Lavinio, provincia sempre di Roma, ma pur sempre dopo Torvajanica, dove, a detta invece di mio padre “l’abusivismo edile mi fa troppo male agli occhi”. Il fatto che poi la casa sul mare sia in un palazzetto in cortina, uguale uguale a quelli della Circonvallazione Ostiense, solo un po’ più basso e piantato sulla sabbia, per lui sono dettagli.

Definire Lavinio come una ridente cittadina di mare sarebbe invece una bugia, perché come quasi tutti i posti in cui le persone lavorano molto di più in certi mesi dell’anno, dette persone non hanno una gran voglia di sorridere mentre orde di gente in ciabatte e costume si aggira per le stradine di solito così silenziose, alla ricerca di cose da mangiare, creando non assembramenti che vanno di moda, ma veri e propri agglomerati fluorescenti di borse frigo, prendisole a fiori, zeppe di sughero e bambini ricoperti di crema color puffo, facendo tutti insieme più casino di una trasferta degli ultras. Per questo a Lavinio si ride poco e se magna tanto.
Io sono più quella che si trascina fino al mitico pullmino blu, buttando un massimo di quattro magliette e due pantaloncini, direttamente nella busta rinforzata del Todis.
A farla da padrone è questa catena di pizzerie e pizzetteria chiamata Boccione, Boccione dal 1950 o giù di lì. Famosa perché è sinceramente molto buona, buona al punto che anche in certe mattina di novembre o di febbraio, continuo a svegliarmi pensando di poter andare a fare colazione con una Peroni piccola e due di quei supplì da cui traspaiono chicchi di riso e olio e poi ancora olio. Famosa anche perché sta nell’unica vera piazza del luogo, Piazza Lavinia, poco più di uno slargo di cemento da cui spicca un palazzone orrendo tutto grigio e un po’ scrostato e in cui ci trovi sempre quegli allestimenti di giostrine da posto piccolino che a me, già di per sé, fanno venire una voglia di piangere anche adesso che le nomino. Poi ci sta una chiesetta, l’edicola, un supermercato abbandonato, il punto scommesse nel quale un giorno un signore di una certa età andò da un altro signore di una certa età e sbattendo le mani sul tavolo di plastica, si mise a urlare “A pensionatooo!!!” . Infine il tabaccaio, dove, se fossi stata bambina, avrei pensato ci lavorassero dentro due streghe, invece sono solo due signore che non sorridono mai. Ma mai così poco quanto il ragazzetto che ti dà i supplì di Boccione. Che poi, a dirla tutta, credo le due signore siano solo molto stanche e il ragazzetto sia solo molto, ma proprio estremamente fatto e chi sono io per biasimare qualche canna (qualche etto di) stagionale.
Ora da quello che so, al litorale laziale, come al litorale in generale, ci si può andare anche portando solo abiti stile Portofino o prima al Teatro dell’Opera. Io sono più quella che si trascina fino al mitico pullmino blu, buttando un massimo di quattro magliette e due pantaloncini, direttamente nella busta rinforzata del Todis. Le ciabatte addosso e i calzini mai prima del primo settembre. La magnante Lavinio anche in questo mi ha fatto sentire molto accolta, infatti ho ritrovato anche quei mollettoni di plastica a forma di conchiglia, che nemmeno più i parrucchieri hanno il coraggio di usare, eppure così pratici e così in linea con la mia cappelliera del Todis.
Voi direte, ma che persona sciatta, invece per me anche questa è libertà. Quella di non pensare troppo a come sto e più a come mi sento, quella di non gareggiare per quel paio di viuzze che ci sono a fare la più bella del paese, quella di accendermi le sigarette con l’accendigas in mezzo a tutti, quella di chiudere il resto dell’anno insieme alla porta della casa a Roma e portarmi dietro l’essenziale: me stessa. E i miei amici.
Perché dai, parliamoci sinceri, non c’è luogo, nemmeno il mare, nemmeno il più bello e non c’è viaggio, nemmeno il più magnifico, che sia lo stesso senza qualcuno a cui vuoi bene e a cui poter dire “Cazzo che bello sto tramonto” così come “Accidenti come sono buoni i supplì oggi”. Il mare davanti è più la cornice della poesia, ma le parole ce le mettono le persone con cui lo guardi. Per il puro gusto di essere proprio melensa, su questa cosa ci voglio insistere. Alla fine il “Lido dei Pini” era soltanto un modo per dire che andavo a trovare gli amici, che però allora non avevo. Oggi sì, e un po’ come in quella puntata dei Simpson in cui Lisa per la prima volta scopre che può avere degli amici, che le fanno pure un album di fotografie quando se ne va, con dentro pure le conchiglie, il mare semplice, il mare vicino, a volte sporco, sempre rustico, mi sta insegnando che non tutto quello che ci perdiamo, è perso per sempre.
Ti puoi permettere di fare sogni di cose che non farai mai, di progettare impalcature alternative per la vita di settembre, senza occuparti di rivoluzionare sul serio il mondo, ma credendoci come se il fondo del vino
Certe volte ci vogliono la pazienza e il coraggio di crescere abbastanza, per tornare indietro e rimettere le cose a posto. Certe volte succede che aspetti per anni che qualcuno ti porti a vedere il mare perché è importante e poi capita che sei tu che ci porti tutti quelli che sono importanti. In quelle certe volte ti puoi permettere di fare sogni di cose che non farai mai, di progettare impalcature alternative per la vita di settembre, senza occuparti di rivoluzionare sul serio il mondo, ma credendoci come se il fondo del vino bianco fosse il fondo della verità.
I miei amici quest’anno al mare mi ci hanno lasciato pure la chitarra, così il prossimo avremo meno bagagli da portarci per i nostri orridi karaoke sul terrazzo, io ci ho lasciato vari cappelli, tutti appesi al muro, così non ce li dobbiamo portare schiacciati nel bustone, ci ho lasciato non il cuore, proprio la memoria, al sicuro tra la sdraietta Enrico Coveri regina della casa e le lenzuola bucherellate perché si sa, al mare si portano gli avanzi delle cose e nelle case, non in tutte ma in tante, ci possiamo ricostruire certi fili di storia rimasti annodati nei pensieri.
Credo che i souvenir spesso siano brutti perché le bellezze grandi come er mare co’ gli amici, non hanno bisogno di una spolverata d’oro sopra, sono brutti perché ci servono a ricordare quanto si possa ridere quando non siamo soli.
La sfida enorme è cercare di non farsi schiacciare la memoria da settembre, con la sua fretta di vivere e di fare, con le sue scarpe chiuse e gli abiti formali. Con le prime piogge, i primi freddi, le prime maniche lunghe, gli ultimi ricordi strappati alle fotografie in cui sorridiamo tutti, nemmeno perché siamo felici, solo perché ci sentiamo liberi.
Mentre avverto attraverso il calzino, il ricordo della sabbia grattare nella scarpa, penso che in effetti le madri hanno quasi sempre ragione, solo che bisogna, anche qui, crescere abbastanza per non volercela avere a tutti i costi. Per questo pure io, che ancora non so bene come devo vivere, una cosa so per certo, so per certo che vojo morì ar mare.
I Tormenti dell’Estate è la playlist perfetta per accompagnare la lettura di Marinconie. L’ha compilata Miriam Lilli, la responsabile dei social media delle Industrie Fluviali. Con grandi invidie di Eva Pinter.
Psicologa e psicoterapeuta. Ha esteso la sua attività professionale alla consulenza epistolare, che diviene supporto e condivisione grazie alle risposte che trovano spazio sul suo blog Confessioni di una Psicologa Senza Filtro.