Non è per prendere a tutti i costi una posizione, ché di manichei ce ne sono già molti e non sembra che la contrapposizione porti da qualche parte.
È più per lo sbigottimento – che ingenuo che sono! – nel leggere dell’identificazione e denuncia di Geco e delle polemiche che ne sono seguite, e apprendere che il dibattito attorno al writing non si sposta di molto da quello di sempre. Nonostante sia una forma artistica codificata da mezzo secolo.
È arte, non è arte, è vandalismo, è disagio sociale, i disegni tutti colorati vanno bene ma questo proprio no.
Eccetera.
Come se nel 1987, 50 anni dopo Guernica, fossimo stati lì a discutere se quella di Picasso fosse arte.
È arte, non lo è, anche mio figlio saprebbe farlo, ha disegnato un occhio in verticale.
Eccetera.

Meno di due settimane fa ero alla Contemporary Cluster per la presentazione di Roma Subway Art, edito da Whole Train Press (per inciso, un volume fantastico, capace di raccontare un bel pezzo di storia di Roma, con molteplici profondità), ed ero felice di riscontrare ancora una volta quanto il fenomeno sia storicizzato. E di vedere che, finalmente, non dobbiamo ridurci a discutere di quale disagio sociale o familiare spinga un writer a camminare nei tunnel della metropolitana per raggiungere il deposito. Né di sforzarci di emancipare un fenomeno artistico al quale – in fondo – non è mai interessato più di tanto emanciparsi. I writer hanno continuato a fare quello che gli piaceva fare per decenni, impattando sull’immaginario contemporaneo come nessun altra espressione visiva, nei campi più disparati, costruendo l’estetica della nostra epoca più di quanto abbiano fatto i più prestigiosi archi-star.
Eppure, basta la denuncia di un writer – peraltro uno, Geco, dal tratto così pulito e dallo stile così definito che è difficile assimilarlo alle throw-ups più selvagge, a dirla tutta – per ritrovarsi a discutere di cosa sia arte e di cosa non lo sia, perché – si sa – non solo siamo tutti commissari tecnici della Nazionale, ma fra di noi si annidano anche moltissimi critici.
È arte, non è arte, eccetera. Come se fosse questo il filtro per stabilire se una cosa sia legittima o meno. Ma legittimazione e delegittimazione sono armi comode per togliere terreno sotto ai piedi dell’interlocutore, a arroccarsi sul proprio lato della scacchiera. Anche quando certe convinzioni derivano dalla legge più di quanto la legge derivi dal comune sentire: è illegale quindi è brutta quindi non è arte.
E quindi le enormi – e meravigliose – medianeras dipinte legalmente dagli street-artist di tutto il mondo sono arte, ma quattro lettere dipinte a biancone no. Magritte sì, Duchamp no.

Sull’operazione in sé non credo ci sia molto da dire, se non per valutare nell’insieme certe politiche repressive – un argomento decisamente più vasto, di cui questo è solo una goccia nel mare – e l’atteggiamento quantomeno discutibile di un’amministrazione che rivendica l’arresto di un writer come una vittoria. L’illegalità è a suo modo un motore della creatività, e certi rischi sono in parte calcolati. Ma la risposta che come società sappiamo dare – che auspico sempre sia una risposta solidale, ché non vedo come ci si possa ritenere soddisfatti se uno finisce in galera per dei disegni – potrebbe essere meno inconcludente se ci liberassimo dalle solite domande: è arte, non è arte, eccetera.
Copywriter e cultural manager alle Industrie Fluviali.