Prossimità

Prossimità

È passato oltre un mese dal 14 dicembre, giorno in cui una telefonata ha lasciato cadere la pesante mano della realtà su di noi. 
E la realtà è vera, dura e impietosa. 
È trascorso un mese, e ho deciso di scrivere, perché viviamo in tempi accelerati, dove la memoria cede e io non volevo cedere.
Il 14 dicembre del 2021 abbiamo perso il piccolo Jorge.

Era il più giovane di noi: gentile, educato, sempre pronto a sostenere ogni nostra richiesta. Purtroppo, fuori di qui, la sua vita non era per niente facile. 
Mi dispiace. Nessuno poteva sapere quello che sarebbe successo, ma la realtà non lascia spazio all’immaginazione, la realtà agisce.
Mi dispiace, perché avevamo storie simili e forse io più di ogni altro avrei dovuto, avrei potuto capirlo. Era lì, vicinissimo.
Vent’anni ci dividevano, avrei potuto essere suo padre. Un destino di fango ci accomunava, avrei potuto aiutarlo.
Le cose non sarebbero cambiate, la realtà non sente scuse. Però…

Jorge pensava di non poter riuscire, di non essere in grado, ma non si rendeva conto che invece ce l’aveva già fatta. Era uscito dal fango che il destino gli aveva lasciato in dote e si era conquistato il suo modesto spazio nella società.
Ecco, non l’ho aiutato a capire questo. Non gli ho mai detto quanto fosse bravo secondo me, quanto affidamento facevo su di lui. E soprattutto quanto lo capivo. La vita è più semplice di quello che sembra, ma non per tutti purtroppo. La comprensione può scaldare il cuore. Può farci sentire accettati, riconosciuti come parte di qualcosa. 

Prossimità deriva dal latino proximus: vicinissimo. O Il più vicino.

Intorno a noi il prossimo svanisce, si dissolve nell’aria senza lasciare traccia. La cosa più vicina a noi oggi è il nostro telefono, moderno mezzo di comunicazione. Il mondo è a portata di tap, la lontananza è stata sconfitta, ma il prossimo dov’è? 
Il Prossimo è l’altro di fronte a me, vicinissimo, il più vicino. Oggi riusciamo ancora a vederlo? 
La nostra società sta muovendo piccoli passi verso il pensiero inclusivo. Facciamo attenzione all’utilizzo del linguaggio, diventiamo sempre più consapevoli del ruolo delle parole nelle dinamiche di esclusione, è diventato un problema urgente risolvere le questioni di genere in seno alla nostra lingua. Ci chiediamo se utilizzare il maschile, il femminile, il generico o addirittura un asterisco. Cerchiamo con affanno di non lasciar fuori nessuno, di portare all’interno del nostro spazio ognuna delle più svariate tipologie di esistenza. 

Tutto questo attraverso i nostri molteplici canali di comunicazione che vengono normalmente mediati da un freddo schermo a cristalli liquidi. Abbattere le barriere tra ogni genere di differenza è un obiettivo nobile, per cui vale la pena spendere tempo ed energie, questo è fuor di dubbio. Ma in tutto questo sconfinato mondo, fatto in gran parte di comunicazione, dov’è finito il prossimo?
Quale valore può avere una politica dell’inclusione se non siamo più in grado di percepire l’altro con tutto l’universo emotivo che porta con sé?

Procedere verso un obiettivo nobile, tenere lo sguardo fisso verso il cielo, ci può far perdere di vista tutto quello che si muove intorno a noi, al nostro fianco, tutto ciò che ci è prossimo. Non vorrei mai si arrestasse questo splendido cammino, ma, forse, che rallentasse un pochino… Rallentando potremo tornare a guardare quello che si muove intorno a noi. Potremmo ritrovare gli sguardi, gli occhi, del prossimo. Potremmo lasciarci contagiare dalle sue emozioni, ritrovare uno scambio.
Parlare e non scoprirci più soli.